Il piatto di chi non mangia

Cala l'Indice globale della fame, ma 842 milioni sono senza cibo
14 Ottobre 2013 - 22:30

Nel mondo sono ancora 842 milioni le persone che soffrono la fame o che sono "cronicamente denutrite", secondo la definizione Fao nel rapporto sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo. Eppure, secondo l'Indice globale della fame 2013, presentato a Milano il 14 ottobre dall'ong Cesvi in collaborazione con Ispi e Link2007, ci sono miglioramenti. Rispetto al 1990, l’indice 2013 è sceso quasi del 34%, passando da 20,8 a 13,8 punti.

Calcolato tenendo conto della denutrizione (la quota di popolazione con assunzione calorica insufficiente), dell'insufficienza di peso infantile e della mortalità infantile, l’Indice Globale della Fame (Ghi) è uno strumento sviluppato da IFPRI, Welthungerhilfe e Concern,per misurare e monitorare la denutrizione sia a livello mondiale sia per regioni e Paesi in via di sviluppo o emergenti. Il calcolo dà come risultato una scala di 100 punti dove 0 rappresenta il valore migliore (assenza di fame) e 100 il peggiore.

Stupisce, nei dati dell'Indice, il dato che riguarda l'Asia meridionale, che presenta un punteggio più basso dell'Africa subsahariana, nonostante ci venga sempre presentato come il continente delle "tigri" e delle economie emergenti.  Come è possibile? Lo chiediamo a Lylen Albani, che per Cesvi si occupa della campagna Food Right Now.

"È vero che l'Asia ha un punteggio alto - spiega Albani -, ovvero un indice 'allarmante', secondo l'indicatore del rapporto, ma bisogna considerare i dati dei singoli Paesi e delle regioni interne. L'India, che fa parte dei 'Brics' (acronimo utilizzato per riferirsi a Brasile, Russia, India, Sudafrica e Cina, caratterizzati da una forte crescita del Pil), ha grandi disuguaglianze al proprio interno: nelle zone urbane c’è forte sviluppo, mentre nelle zone più remote ci sono sacche di povertà gravi. L'Africa subsahariana invece ha valori più bassi in questo indice, con 19,2 punti rispetto ai 20,7 dell'Asia Meridionale, perché ci sono Paesi di quell'area che stanno facendo il salto, migliorando il punteggio grazie ad azioni congiunte. Non si tratta solo di guardare la crescita economica, ma anche all'adozione di politiche multisettoriali e multidimensionali, come la lotta alla malaria, all’Aids, agli investimenti in agricoltura, al miglioramento dell’accesso all’acqua potabile e alle strutture igienico- sanitarie”.

Nel rapporto mancano i dati dei paesi industrializzati, perché?
La scelta è voluta. Gli istituti che hanno creato questo indice si sono focalizzati su 120 Paesi in via di sviluppo, emergenti o in transizione. Per i Paesi industrializzati il livello di fame sarebbe stato troppo basso per come viene calcolato in questo indice. Il rapporto dell'Economist, per esempio, coivolge anche 107 Paesi industrializzati nel confronto, utilizzando informazioni come l'accesso ai finanziamenti per i piccoli agricoltori o l'impegno del governo su determinate politiche istituzionali; ma si tratta di un'analisi prettamente economica. L'Indice globale della fame ha un focus diverso. Poiché è stato usato per la prima volta nel 1990, la durata nel tempo di questi dati permette di analizzare i trend e capire gli sviluppi o i fallimenti di alcuni Paesi nella lotta alla fame e di approfondirne le cause.

Nella mappa dell'indice ci sono alcune aree "rosse" con un indice della fame "allarmante". Sono alcuni dei Paesi da cui arrivano le persone che in questo periodo cercano di approdare sulle coste di Lampedusa.
È vero, in molti si chiedono se la migrazione sia dovuta alle condizioni di vita della popolazione denutrita. Alcuni Paesi della fascia subsahariana hanno subito in particolar modo la crisi alimentare del biennio 2008-2010, quando la volatilità dei prezzi dei beni alimentari, unita a periodi di siccità e a crisi umanitarie legate anche a fattori sociali, ha mandato in crisi i piccoli produttori. Ma Il fenomeno migratorio che riguarda queste zone è complesso, non è legato soltanto alla fame: è il caso di Paesi come il Mali, il Sud Sudan, l’Eritrea, la Somalia, aree ad alta instabilità politica, che hanno subito e ancora subiscono guerre.

Ha parlato di crisi del 2008-2010: quanto ha inciso la crisi globale e la speculazione sui prezzi dei beni alimentari in questo caso?
Hanno inciso soprattutto le speculazioni sul prezzo del mais, del grano e del riso. Il fatto che aumentassero i prezzi non è stato un problema per i piccoli agricoltori, ma lo era il fatto che fossero molto volatili: diventava infatti difficile mettere da parte gli stock e organizzare le vendite senza poter controllare i prezzi o avere possibilità di influire su questi andamenti. E questo si collega al problema molto concreto delle organizzazioni non governative che, come Cesvi, lavorano nei Paesi in via di sviluppo, nel garantire la partecipazione del piccolo agricoltore al mercato, all’economia del proprio paese.

Altre informazioni: l'Indice Globale della Fame 2013, il rapporto completo.

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