A New York, il 17 settembre 2011, un gruppetto di persone decide di occupare simbolicamente il centro dell’impero finanziario mondiale. Si accampano a Zuccotti Park, nei pressi di Wall Street, suscitando curiosità. Inizialmente non vengono presi troppo sul serio. Ma in pochi giorni il gruppo si fa massa e nasce uno dei movimenti di contestazione del capitalismo finanziario più noti dei giorni nostri: Occupy Wall Street. Il cuore della protesta è efficacemente scolpito nello slogan “We are the 99%”: il 99 per cento della popolazione contro l'1 per cento di ricchissimi. Un dito puntato sulla diseguaglianza sociale ed economica che ha conosciuto un continuo sviluppo dagli anni '80 e che la crisi ha addirittura accresciuto.
Ma cosa c'è dietro a questo slogan? Ci sono gli studi statistici dell’economista francese Thomas Piketty, riferimento nascosto del movimento, che con i suoi lavori è uno dei primi studiosi a indagare e denunciare apertamente l’improvvisa ascesa dell’1% più ricco degli Stati Uniti. Piketty è uno strano tipo: classe 1971, studente eccellente dell'Ecole Normale Superiore e della London School of Economics, enfant prodige della matematica economica, finisce ben presto al Mit di Boston. Poi però torna a casa, in Francia, vince il premio come miglior giorvane economista e nel 2006 diventa il primo direttore della Ecole d'Economie de Paris. Un ritorno che dice molto: un campione in erba dell'economia dei numeri sceglie infatti la tradizione "storica" della scienza economica e, come dice lui stesso, riconosce i suoi massimi riferimenti in Braudel e nella scuola storica degli Annales.
Ma la ragione per cui Piketty è ormai diventato un fenomeno mondiale è un libro, pubbblicato nel 2013 in francese con il titolo Le capital au xxie siècle. Al momento, tanto per capirci, scrivendo capitale Google indica tra i suggerimenti l'opera dell'autore francese prima del testo fondamentale di Karl Marx. In questo libro Piketty analizza l’evoluzione nella distribuzione dei redditi e dei patrimoni in numerosi Paesi negli ultimi tre secoli: un lavoro basato su lunghe serie storiche di dati in cui, come Piketty ritiene debba essere, l'economia torna a essere una scienza sociale e fare i conti innanzitutto con la storia.
Dall'analisi di Piketty emerge che i paesi industrializzati, a partire dagli anni '70 del Novecento, sono stati caratterizzati da una forte crescita nelle disuguaglianze sia per quanto riguarda i redditi che i patrimoni. Ed è proprio sui patrimoni che l'economista parigino concentra la sua attenzione. In particolare Piketty osserva che oggi la disuguaglianza nel reddito non è data da una disparità di salari quanto dal rafforzamento del capitale in termini di crescente rilevanza delle rendite finanziarie, il che vuole dire che la rendita finanziaria cresce più del Pil, ovvero della produzione economica, e questo determina un aumento della disuguaglianza.
La tesi di fondo è che con il capitalismo le disuguaglianze sono aumentate. E sono poi esponenzialmente cresciute con la finanziarizzazione dell’economia. Senza un radicale intervento politico volto a modificare le forze del mercato, le disuguaglianze economiche sono destinate ad aumentare non essendoci forze spontanee interne allo stesso capitalismo che possano contrastare questa tendenza. Ne conseguono evidenti squilibri sociali ed economici che minacciano un processo di crescita sano e democratico
La soluzione che prospetta l’economista francese, e che lui stesso definisce semplice per quanto utopica in un mondo globalizzato, è un’imposta patrimoniale ovvero un’imposta sul capitale mondiale. Tuttavia, guardando alla storia, Piketty è fiducioso: come oggi, parlare di imposta sul reddito non scandalizza più nessuno, mentre a inizi Novecento sembrava una soluzione politicamente impraticabile, così potrà avvenire per l’imposta patrimoniale.
Il libro e le teorie dello studioso hanno suscitato pareri discordanti: sono state accolte con entusiasmo dall’ala keynesiana degli economisti (Krugman) e apprezzate, pur con riserve politiche, dallo schieramento liberista (The Economist), ma sono state fortemente contestate dal Financial Times, il quale accusa l’economista francese di avere commesso degli errori nell’elaborazione dei dati usati a supporto delle sue tesi. Piketty ha risposto, il dibattito è aperto.
Quel che è certo è che il libro di Piketty sta contribuendo notevolmente a riprendere ed alimentare il dibattito intorno alle diseguaglianze economico-sociali, a mettere in dubbio l’economia come scienza esatta, a incentivare la politica come forza riequilibratrice in un sistema che rischia di rimettere in discussione valori democratici e uguaglianza.
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