Globalizzazione addio?

POPWEEK, l'economia di una settimana
28 Gennaio 2017 - 16:15
Globalization, foto di Abadi Moustapha (CC BY 2.0)

Da questa settimana Pop Week assume una nuova forma: ci concentreremo d'ora in avanti su una notizia, tra le più rilevanti della settimana, approfondita e analizzata con chiarezza e semplicità, in pieno stile Pop Economix, tenendo conto di diversi punti di vista. Al solito, non mancherà la nostra “Bonus track”, una chicca settimanale scovata tra le pieghe delle pagine di economia delle principali testate del settore.

 

L'ultima mossa è stata quella di bloccare l'arrivo di tutti i rifugiati e dei cittadini di ben sette paesi a maggioranza islamica, per ora per 120 giorni. Ma è solo l'ultima, appunto. Nel nuovo ordine economico mondiale, fin dal primo lunedì del suo mandato Donald Trump si è ritagliato, come aveva promesso in campagna elettorale, il ruolo di nemico numero uno della globalizzazione.

Mentre tutti aspettavano di capire se avrebbe fatto sul serio, ha infatti firmato un atto che stabilisce l'uscita degli Stati Uniti dall'Accordo TransPacifico, l'accordo commerciale con 12 Paesi – dal Canada al Cile, passando per l'Australia e il Giappone - che si affacciano sull'Oceano Pacifico, firmato dal suo predecessore. E il prossimo passo potrebbe essere una profonda revisione del Nafta, il patto commerciale con Canada e Messico e la possibile introduzione di una tassa del 35% su tutte le importazioni per scoraggiare la delocalizzazione.

 

Un'inversione a U rispetto alla politica repubblicana – che tipicamente considera l'espansione del commercio globale come un bene per il Paese e per il mondo intero – che gli ha permesso di raccogliere gli applausi dei sindacati per aver difeso, in nome del principio “America First”, i salari degli operai Usa dalla concorrenza della manodopera a basso costo, apprezzata dalle multinazionali, di Paesi come Vietnam e Malesia.

 

Secondo l'Economist di questa settimana, però, le politiche di Trump sono solo la punta dell'iceberg di una crisi che sta colpendo i giganti aziendali in ogni parte del mondo. Se da un lato, siamo tutti prepotentemente influenzati in ciò che vediamo, ascoltiamo, mangiamo e vestiamo dai grandi marchi internazionali, è altrettanto vero che negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25% e, nella torta globale dei ricavi, la fetta di queste aziende si è assottigliata dal 35% al 30%.

I salari crescono infatti anche in Cina ed è sempre più frequente che le imprese all'avanguardia abbiano spesso una taglia nazionale. Per non parlare del fatto che gli uffici del fisco e le autorità antitrust, da qualche tempo, sono in mobilitazione permanente – basta pensare ai recenti casi Apple e Google – per cercare di incassare il dovuto rispetto agli introiti realizzati da filiali strategicamente piazzate in Paesi dalla tassazione “amichevole” o per sanare abusi di posizione.

 

Immaginare un mondo de-globalizzato non è semplice e, forse, non sarebbe nemmeno una buona notizia se pensiamo a cosa può significare una perdita di valore e di produttività in tempi più o meno simultanei per svariati marchi globali e per la filiera che sta alle loro spalle. Forse è più realistico dire che la globalizzazione sta cambiando faccia e, Pechino non ne fa mistero, avrà sempre di più una guida cinese.

 

Secondo il premio Nobel per l'economia Angus Deaton, comunque, la globalizzazione ha ancora qualcosa da dire, specie in fatto di benefici per la maggioranza delle persone che possono provenire dal libero scambio e dalla crescita tecnologica, ma ora – con Trump al comando – non può più esimersi dall'impegno per limitare gli svantaggi che determina per una parte della società.

 

 

Bonus track

§ “Ti ricordi, com'è cominciata Airbnb?”: Bloomberg Businessweek dedica la sua storia di copertina alle origini del più noto sito di affitti a breve termine che otto anni, al momento del primo giuramento da presidente di Barack Obama, era ancora una piccola traballante impresa. 

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