Cos'è la politica industriale?

Cinque domande a Giampaolo Vitali, economista d'impresa
24 Settembre 2013 - 16:45

Telecom, Pirelli, Ansaldo Sts, Fiat. Il destino delle grandi imprese fa discutere e allora ecco che si riparla di politica industriale. Per provare a spiegare in modo semplice che cosa è la politica industriale abbiamo intervistato Giampaolo Vitali, ricercatore del Ceris-Cnr e segretario del Gruppo Economisti d'Impresa.

Come possiamo spiegare, in modo semplice, cosa è la politica industriale?

Dietro al concetto di politica industriale ci sono teorie differenti e a volte opposte. Secondo alcuni la politica indistriale si deve limtare a dare a tutte le imprese le stesse opportunità in un libero mercato. Ma questo approccio è considerato da altri troppo liberista. Costoro sostengono dunque che con la politica industriale lo Stato deve spingere anche gli imprenditori verso scelte che creano competività sul medio-lungo periodo, con benefici evidenti per tutti.

Come può fare questo, lo Stato?

Principalmente attraverso la creazione di beni pubblici a favore del settore privato, come le infrastutture. Ad esempio le infrastutture di comunicazione, a partire da quella telematica che oggi è la più importante, la più urgente. Perchè su questa infrastruttura viaggiano dati, non solo telefonate, E i dati sono informazioni determinanti per la creazione di valore.

Certo, se l'infrastuttura non c'è il privato può provare a realizzarla da solo. Ma questo è possibile solo alle grandi imprese, che possono, per esempio, affrontare l'investimento delle telecomunicazioni via satellite se manca la rete in fibra ottica. Le imprese piccole e medie invece restano indietro. E il nostro tessuto industriale è ricco soprattutto di imprese piccole e medie. Quindi lo Stato dovrebbe intervenire: se non direttamente, almeno indirettamente, favorendone lo sviluppo da parte di attori privati.

In Italia, oggi, abbiamo una politica industriale?

Oggi fare politica industriale è più complicato perché in Europa qualsiasi politica a favore del contesto nazionale deve essere in linea con il diritto comunitario, cioè le regole che abbiamo liberamente accettato di sottoscrivere, a partire dalle normative antitrust, per la tutela della concorrenza nel libero mercato. Ma che sia complicato non sono significa che sia impossibile. E invece si fa poca politica industriale.

Perché?

Principalmente per due motivi. Da un lato perché i governi lanciano proposte, ma poi non le realizzano a causa della breve durata, dell'instabilità politica e della tendenza della politica a guardare a obiettivi a breve termine, che creino consenso, mentre la politica industriale dà risultati a medio se non lungo termine. Dall'altro lato c'è il peso dei grandi gruppi: è sempre difficile, per la politica di oggi, confrontarsi con forti gruppi di potere, nei diversi settori.

Se le politiche di settore sono difficili, si può invece puntare a una politica industriale per fattori, cioè per la creazione di strutture utili a tutti i settori, quindi orizzontali. Un esempio in questo senso è proprio la politica contro il digital divide: lo sviluppo delle reti informatiche veloci non è di settore, ma appunto orizzontale, ormai. Sarebbe la vera politica industriale oggi possibile e darebbe risultati in poco tempo.

Come si comportano gli altri Paesi europei?

A grandi linee gli altri Paesi sono un po' più attenti alle linee di comportamento dei propri grandi player, dall'energia ai trasporti aerei, alle telecomunicazioni e spingono su una moral suasion per far sì che questi adottino linee di sviluppo non in contrasto con le linee di sviluppo del Paese e delle altre imprese del Paese. Il ruolo delle Autorità di settore, da questo punto di vista, è molto importante. Ma per Autorità forti serve anche un governo forte e continuativo. L'esempio tedesco è ottimo, in questo senso.

Aggiungi un commento

0